Un credente che coltiva al meglio la sua fede in Dio, praticando bontà e rettitudine e dunque mettendosi nelle migliori condizioni per poter ricevere l'aiuto divino... in che senso può continuare a sentirsi benedetto dal Signore e "vegliato" dal suo divino sguardo provvidente... se la realtà concreta della sua vita lo porta invece a dover far fronte ad ostacoli ed avversità esistenziali?
Fu proprio questa una delle fondamentali questioni che, storicamente, "minarono" l'antica concezione ebraica nota come "dottrina della retribuzione", secondo la quale si pensava che la giustizia divina intervenisse direttamente nelle vite degli uomini, ricompensando il bene e punendo il male da loro compiuto.
A fronte dell'osservazione di come, invece, nella vita delle persone comuni questo principio fosse sovente smentito dalla realtà dei fatti, ad un certo punto questa tradizionale concezione fu messa in discussione*, com'è testimoniato anche dalla biblica storia di Giobbe (VI sec. a.C ca.)... il “giusto” che, anziché essere “premiato” da Dio, viene sottoposto nella sua vita ad una lunga serie di prove e travagli interiori al termine dei quali, pur senza aver potuto trarre risposte esaurienti dai princìpi della teologia giudaica tradizionale, egli continua a confidare nel Signore, giungendo infine a dirGli: “Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Gb 42,5).
In questo modo Giobbe dimostra di aver intuito, grazie alla luce donatagli da Jahvè, il proprio ‘esah... cioè il piano trascendente con il quale il Signore ha provveduto al suo bene supremo, costituito dalla sua individuale salvezza.
Il messaggio biblico che ne consegue è che, al pari di Giobbe... ovvero riconoscendo la limitatezza delle proprie umane prospettive e confidando sempre nello sguardo provvidente di Dio... ogni credente può affrontare con forza interiore anche le situazioni più difficili della sua vita, sapendo che il Signore non cessa mai di vegliare su di lui.
Ulteriori aspetti di questo basilare principio sono messi in risalto da numerosi altri passaggi veterotestamentari. Per fare soltanto un esempio, basti pensare alla storia di Giuseppe, figlio del Patriarca Giacobbe, la cui vicenda è emblematica per mostrare come Dio faccia sì che anche il male serva al suo disegno di salvezza:
All'insaputa del padre, Giuseppe viene tradito dai suoi fratelli che lo vendono a dei mercanti, e lui finisce così in Egitto.
A distanza di anni, anch'essi sono però costretti da una carestia a recarsi in Egitto, dal faraone, per approvvigionarsi del cibo necessario al sostentamento delle loro famiglie...
Qui i figli di Giacobbe reincontrano il loro fratello Giuseppe, che nel frattempo il faraone ha nominato suo governatore (Gen 41,40)... e da cui si sentono rivolgere queste parole: “Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,20).
Proprio il male costituito dal tradimento subito da Giuseppe, è dunque trasformato da Dio in un bene... perché è proprio a seguito del suo allontanamento dalla famiglia che Giuseppe ha poi potuto diventare governatore del faraone e, in quanto tale, strumento della Provvidenza di Dio... che fornisce il sostentamento ai suoi fratelli e all'intero suo popolo.
Ecco allora che, attraverso questa vicenda esemplare, si delinea la biblica prospettiva di fede nella quale, per il credente, è motivo di speranza il fatto che l'Onnipotente possa provvedere alla sua salvezza anche traendo il bene da ciò che lui umanamente sperimenta come "male".
* P.S. - Per approfondire questo argomento, puoi vedere anche il post "Dalla fine di tutto... alla vita eterna" (nel mio blog "Diario di un monaco, discepolo di Swami Roberto")
- Inoltre, puoi approfondire il concetto cristiano-ramirico di karma, a partire dall'apposita voce nel Dizionario tematico di questo blog.
Segue: « Il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose » (Mt 6,32)
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