Shëkhināh, la presenza di Dio

Percorrendo la tappa focalizzata sul “Nome divino nel tempio di Gerusalemme”, abbiamo ricordato come la voce dei profeti ebraici si sia ripetutamente levata, nel corso dei secoli, per denunciare un uso magico-ipocrita del tempio, praticato da quanti trascuravano un fondamentale principio della fede: nella sacralità del luogo di culto Jahvè manifesta la sua presenza al credente, ma a condizione che questi Gli sia stato fedele anche nella vita di tutti i giorni.
Esemplificativo, in questo senso, è il brano nel quale Geremia proclama: « Ma voi confidate in parole false, che non giovano: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate. Poi venite e vi presentate davanti a me in questo tempio, sul quale è invocato il mio nome, e dite: “Siamo salvi!”, e poi continuate a compiere tutti questi abominii. Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome? Anch'io però vedo tutto questo!» (Ger 7,8-11)

Nella fase della storia ebraica conclusasi con la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera delle truppe imperiali romane - evento drammatico che è tradizionalmente assunto a riferimento per indicare la fine del Giudaismo del secondo tempio (597 a.C. - 70 d.C.) - in concomitanza con l'affermarsi dell’Ebraismo rabbinico il principio della manifestazione della “presenza divina” trova definizione nel termine Shëkhināh (dalla radice ebraica sh-kh-n, che significa “abitare”).
La parola Shëkhināh è assente nel Tanakh (la “Bibbia ebraica”), e compare per la prima volta nella letteratura rabbinica, nella quale è utilizzata tra i nomi di Dio con il significato, per l'appunto, di “presenza divina”.
In quanto tale, la Shëkhināh era già manifesta nella mosaica “tenda del convegno” come pure nel  Tempio di Gerusalemme ma poi, con l'avvento dell'Ebraismo rabbinico, l'adozione del termine Shëkhināh quale nome divino segna un ulteriore allontanamento da ogni possibile residuo di idea pagano-magica, volta ad intendere l'immanenza di Dio come se Lui potesse essere “catturato” nel luogo sacro destinato al culto.
Infatti, è lo stesso significato etimologico del termine Shëkhināh a portare l'attenzione del credente non tanto sul luogo quanto invece sulla presenza, al contempo nascosta e svelata, di Dio... che manifesta la sua vicinanza quando i fedeli Gli rivolgono il loro culto con la giusta disposizione interiore, preceduta da una corretta pratica di vita.
Ecco allora che, pur se il tempio continua ad essere concepito come luogo privilegiato della manifestazione di Jahvè, l'onnipresenza della Shëkhināh è uno dei principi teologici contenuti nella Mishnāh dalla quale, per esempio, traiamo questo brano significativo:
Una persona pagana chiede a Rabbi Gamaliele: “Perché il Santo, sia egli benedetto, si è rivelato a Mosè in un cespuglio?”, ed il Rabbi le risponde: “Questo ci insegna che non c'è luogo dal quale la Shëkhināh sia assente” [PRK, I - Pesiqta di Rav Kahana (tratto da Grande Dizionario delle Religioni, Cittadella editrice, ed. Piemme, Assisi 1990, p.1956)].
In un altro celebre brano Rabbi Hanania ben Teradion dice: “Se due sono seduti insieme per studiare le parole della Tōrāh, la Shëkhināh è in mezzo a loro” (Abot, 3,2), e questo passaggio della Mishnāh, evidentemente “assonante” con le parole del Gesù di Matteo (Cfr. Mt 18,20)… è un po’ come una “finestra” che ci mette adesso in contatto con la concezione cristiana di tempio, che sarà l'oggetto della nostra prossima tappa.




Segue: Il « Nuovo Tempio »... nel Corpo di Cristo

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