Il secondo “componente” dell'ultima coppia degli isaiani doni dello Spirito, che abbiamo cominciato ad osservare nella tappa precedente (“I doni dello Spirito: Conoscenza”), è costituito dalla rûah jir'at JHWH (Is 11,2), ovvero da quello che viene normalmente tradotto come “Spirito del Timore del Signore”.
A differenza dell’uso linguistico moderno, nel quale “timore” e “paura” sono grossomodo equiparati, nel linguaggio biblico la “paura” ha sempre una valenza negativa, mentre invece il “timore” è una virtù, quando è rivolto al Signore.
Per comprendere questa sua valenza virtuosa, è necessario rilevare come il “timore” abbia nell’Antico Testamento un significato riconducibile al senso di “piccolezza” che l’essere umano prova al cospetto della grandezza del Dio trascendente, di cui percepisce la presenza o che magari si manifesta a lui con un “segno”.
Si tratta dunque di una disposizione interiore che nasce innanzitutto dal riconoscimento di questa divina grandezza, e include in sé anche un senso di rispetto, di fascino, di riverenza che però mai sconfina nella paura, perché la paura non può conciliarsi con la fede in Dio.
Nella concezione biblica, una fondamentale caratteristica della virtù spirituale del “timore del Signore” è quella di essere unita alla fiducia in Lui... ed è proprio rivolgendosi alla fiducia del credente che il Dio veterotestamentario, anche attraverso i suoi angeli, lo rassicura dicendogli “Non temere!” (Cf. Giud 6,23; Dan 10,12; Gen 15,1; Gen 26,24; Is 41,10.13; Is 43,1.5; Is 44,2).
La stessa espressione ricompare anche nel Nuovo Testamento (Lc 1,13.30) e, in vari passaggi, è Gesù stesso che ribadisce tale concetto (Lc 12,32; cf. Mc 6,50; Mt 6,25-34)... ad evidenziare ulteriormente come nel rapporto del credente con Dio non possa esserci spazio per la paura.
Infatti, anche quando l’essere umano, di fronte a certe manifestazione divine eclatanti, prova una sorta di “timore reverenziale” misto a stupore… è la sua umana fiducia in Dio a far sì che esso venga “assorbito” nell’alveo dell’amore del Signore, per cui una traduzione più consona dell'originaria espressione isaiana rûah jir'at JHWH è "Spirito di Timore-Amore del Signore"... in ragione del fatto che tale dono dello Spirito è evidentemente una fonte di sicurezza.
In contrapposizione alla mentalità del mondo, che "consiglia" il “timore degli uomini” suggerendo la necessità di una “riverenza” verso quei potenti la cui benevolenza procura una lunga serie di vantaggi mondani, dalla posizione sociale ai benefici economici… la Bibbia esalta invece il “timore-amore di Dio” quale inizio della sapienza (Cf. Pr 1,7; Sal 111,10), vera e propria via di salvezza (Cf. Sal 103,17; Lc 1,50; At 10,35; Ap 11,18).
Inoltre... ben diversamente dallo stato d’animo di chi prova un senso di paura per ciò che può provenirgli da Dio, dimostrando fondamentalmente di non amarLo… chi ha “timore-amore del Signore” riconosce la sua grandezza e, al contempo, confida in Lui, sentendosi al sicuro tra le “braccia” della sua infinita Misericordia, coltivando per conseguenza il timore inteso quale preoccupazione scrupolosa di piacerGli il più possibile.
E’ in questa direzione che soffia la rûah jir'at JHWH di cui parla Isaia, il dono dello Spirito che accresce nei credenti questo “rispetto amoroso” nei confronti del Signore.
Grazie a questo Soffio divino, i “timorati di Dio” si distanziano pertanto dall’opportunismo di quanti si illudono di poter approfittare dell’infinito amore del Signore, conducendo un’esistenza sostanzialmente “irriverente” nei suoi confronti... e negandosi così, ahiloro, il suo aiuto misericordioso.
Segue: Lo Spirito di Dio, nel Cristo
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