Parole "miracolose" nella Bibbia ebraica

Per poter rivisitare la più antica concezione biblica di miracolo, bisogna innanzitutto colmare una distanza terminologica perché questa parola, derivante dal latino miraculum, non ha un termine ebraico o greco che sia letteralmente corrispondente.
Pertanto, è necessario individuare le parole bibliche che sono state usate dai vari autori veterotestamentari per descrivere i fatti meravigliosi attribuiti ad un intervento speciale di Dio, prestando poi attenzione al modo in cui queste parole sono state usate.

Due tra i principali termini ebraici da prendere in considerazione - che compaiono soprattutto nel Deuteronomio - sono mōphet (“prodigio”, in greco “teras”) e ‘ōt (“segno”, in greco “sēmeion”) i quali, uno insieme all’altro, concorrono a designare l’intervento straordinario attraverso il quale Dio si manifesta, e dunque indicano il prodigio portatore di significato che è definito "miracolo" dall'odierno linguaggio religioso.
Nella tradizione ebraica il presupposto necessario perché un certo avvenimento sia riconosciuto e quindi raccontato come un prodigio divino, è che questo accadimento venga vissuto dal popolo, o dalle singole persone coinvolte, come un’opera meravigliosa mediante la quale Jahvè dà un determinato messaggio, che nei differenti casi può per esempio essere un insegnamento, un annuncio, un appello alla fedeltà, l'attuazione di una promessa, una prova di amicizia ecc.
Pertanto, nel binomio preso qui in considerazione il termine più importante è ‘ōt (segno), che oltretutto tra i due è il solo a poter avere una sua autonoma rilevanza anche indipendentemente dal mōphet (prodigio): Jahvè può infatti dare il suo messaggio religioso anche attraverso una cosa o un fatto non necessariamente prodigioso-straordinario.
Questa coppia costituita dai termini ebraici mōphet (“prodigio” in greco “teras”) e ‘ōt (“segno” in greco “sēmeion”), sarebbe poi riapparsa – tradotta in greco - anche nel Nuovo Testamento, come ci ricorda per esempio il passaggio degli Atti nel quale Pietro si riferisce a Gesù in quanto uomo accreditato da Dio « per mezzo di miracoli (in gr. dynamesi), prodigi (terasi) e segni (sēmeiois (At 2,22).
Questa espressione neotestamentaria è particolarmente significativa, perché proprio la terza componente che viene aggiunta... cioè le “opere di potenza” (dynameis)... ci pone di fronte ad un trittico che riunisce – come rileva per esempio R.Latourelle - “i tre aspetti del miracolo inscritti nella terminologia biblica stessa: il miracolo è un prodigio religioso (aspetto psicologico: punto di vista dello spettatore o testimone), un’opera di potenza (punto di vista della causa che lo produce), un segno mandato da Dio (aspetto di intenzionalità)” (R.Latourelle, “Miracoli di Gesù e teologia del miracolo”, Cittadella Editrice, Assisi, 1987, p.355).
Se infatti torniamo a rivolgere il nostro sguardo verso il Tanakh per seguire “il punto di vista della causa che lo produce (il miracolo)”, cioè “l’opera di potenza”, vi troviamo alcuni ulteriori termini ebraici volti a designare queste divine opere, quali per esempio : gebūrā (in gr. dynamis) “atto di potenza”; gedulōt (gr. megaleia) “cose grandi”; ma’ase (gr. erga) “azioni di Dio”.
Esemplificativa a tal riguardo è la lode al Signore elevata dal salmista, quando scrive: “Una generazione narra all’altra le tue opere, annunzia le tue meraviglie. Proclamano lo splendore della tua gloria e raccontano i tuoi prodigi. Dicono la stupenda tua potenza e parlano della tua grandezza” (Sal 145,4-6).
In un altro Salmo, l’autore biblico scrive che “Dio aveva operato in Egitto cose grandi (gedulōt), meraviglie (niphla’ōt) nella terra di Cam” (Sal 106,21-22)… facendoci dunque incontrare anche il termine niphla’ōt (gr. thaumasia) “meraviglie”, che sottolinea il senso di ammirazione suscitato nell’essere umano dall’azione compiuta da Dio nella storia.
Nella prossima tappa ripartiremo proprio dalla storia biblica, per osservare un po’ meglio una delle più classiche concezioni di “miracolo”, riscontrabile nel Libro dell'Esodo.




Segue: Le "Meraviglie di Dio", nella prospettiva del Libro biblico dell'Esodo

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