Il « Sacro », una definizione di partenza

Il termine "sakros"... derivante dalla radice indoeuropea sak, che significa “esistere, essere reale”(J.RIES, Grande Dizionario delle religioni, Cittadella Editrice, Assisi 1990, p.1847)... costituisce uno dei due "poli" della classica distinzione tra sacro e profano, tradizionalmente applicata all'esperienza religiosa dell'essere umano.
Facendo per esempio riferimento ad una espressione di Mircea Eliade, generalmente considerato uno dei più grandi studiosi dei fenomeni religiosi, il Sacro può essere definito come la “realtà che trascende questo mondo, in questo mondo si manifesta e per ciò stesso lo santifica e lo rende reale”. (M.ELIADE, Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 1965, p.171).

Il « Sacro » nella tradizione biblica

Nell'ambito della definizione di partenza del “Sacro”, abbiamo incontrato il termine “ierofania” (dal greco antico hierós, "sacro", e phainein, "mostrare") che, in generale, indica l'ampio ventaglio delle possibili manifestazioni del “Sacro” inteso come realtà assoluta che trascende questo mondo.
Questa nozione impersonale del “Sacro” lascia il posto, nella tradizione biblica, ad una concezione nella quale il “Sacro” è sempre messo in relazione con Jahvè, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nella Bibbia ebraica il “Sacro” è designato con il termine Qadôsh, tradotto poi in greco con il vocabolo Hagios che nel pensiero ellenistico era l'epiteto della trascendenza divina rispetto all'uomo... e che nella traduzione in greco dell'Antico Testamento indica la trascendenza del Dio di Israele.
A tal riguardo, celebre è l'espressione isaiana “Qadôsh, qadôsh, qadôsh Jhwh Seva-oth” (Is 6,3), che nella traduzione greca diventa “Hagios, hagios, hagios Kyrios sabaōth (“Santo, santo, santo il Signore degli eserciti”).

Il concetto di « Provvidenza » nell'Antico Testamento

Come abbiamo già ricordato nella precedente tappa (Il Sacro nella tradizione biblica)... il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe trascende il “creato” da Lui manifestato.
Considerando come la radice verbale qdsh significhi innanzitutto “separare”, questa trascendenza di Jahvè è già indicata dal termine ebraico qadôsh (santo) a Lui attribuito (Cfr. Is 6,3)... oltre che essere riscontrabile anche nelle espressioni utilizzate dagli autori biblici in numerosi altri passaggi dell'Antico Testamento, tra i quali possiamo per esempio ricordare: “Egli, il Grande, è al di sopra di tutte le sue opere” (Sir 43,28), “Chi è come te, maestoso in santità?” (Es 15,11), “Non esiste nessuno pari al Signore, nostro Dio” (Es 8,6).

La "provvidenziale" vicenda di Giuseppe: Dio può trasformare il male... facendolo servire al bene

Dopo aver rivisitato “Il concetto di « Provvidenza » nell'Antico Testamento”, è naturale poter ricordare anche una delle classiche questioni che vi sono collegate:
Un credente che coltiva al meglio la sua fede in Dio, praticando bontà e rettitudine e dunque mettendosi nelle migliori condizioni per poter ricevere l'aiuto divino... in che senso può continuare a sentirsi benedetto dal Signore e "vegliato" dal suo divino sguardo provvidente... se la realtà concreta della sua vita lo porta invece a dover far fronte ad ostacoli ed avversità esistenziali?

« Il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose » (Mt 6,32)

Oltre che nell'Antico Testamento, l'idea di Provvidenza divina è riscontrabile in numerosi passaggi dei Vangeli e, in generale, essa costituisce uno dei fondamenti della teologia neotestamentaria.
Nella sua predicazione, Gesù rivela che Dio è proprio come un padre che provvede a tutte le necessità dei suoi figli, i quali sono dunque chiamati a confidare sempre nel suo divino Amore (Cfr. Mt 6,25-34)... senza mai lasciare che le preoccupazioni prendano il sopravvento nella loro vita. 

Le teofanie bibliche: dai fenomeni naturali eclatanti... ad "una voce di sottile silenzio"

Rivisitando il concetto di “Sacro” nella tradizione biblica, abbiamo visto che le pagine dell'Antico Testamento parlano di Jahvè come del Dio trascendente che, in quanto tale, è separato dal mondo.
Per esempio, Isaia lo definisce come il Dio “nascosto”... cioè misterioso e irriducibile a schemi e progetti umani (Cfr. Is 45,15).
Però, anziché rimanere isolato nella sua trascendenza Jahvè si fa vicino all'essere umano e Gli manifesta la sua presenza in diversi modi, variamente raccontati nella Bibbia ebraica.

Uno sguardo verso l'assoluto

Nella precedente tappa abbiamo osservato come gli autori biblici dell'Antico Testamento usino descrivere le manifestazioni divine, comprese le “teofanie” più eclatanti, inserendole in un contesto particolare, parzialmente misterioso, che sta anche ad indicare come l'umana razionalità sia incapace di cogliere pienamente le manifestazioni del Dio trascendente.
Questa idea biblica si ricollega ad un concetto che abbiamo sfiorato mentre percorrevamo la tappa «Il “Sacro”, una definizione di partenza», e sul quale focalizziamo adesso l'attenzione, riconoscendone la presenza nelle principali religioni mondiali, oltre che nel pensiero filosofico:
Si tratta del concetto designato dal sostantivo assoluto (Dal lat. absolutus, “libero da qualsiasi vincolo”) che, in filosofia, indica “ciò che non ha dipendenza né limite, che ha in sé la ragione del proprio essere”.

« Questo è il mio nome per sempre » (Es 3,15)

Scorrendo le pagine della Tōrāh, si può osservare come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe sia chiamato con nomi diversi.
A partire dai due termini ebraici tradotti con “Dio”, vale a dire El (“la divinità”) e Elohim (plurale di El), troviamo per esempio El-Elion (Dio altissimo) El-Roi (Dio che vede) El-Olam (Dio eterno), ’El-Shaddaj (Dio onnipotente o delle montagne)... ma il più significativo dei nomi di Dio è comunque quello rivelato nel Libro dell'Esodo (3,14), nel celebre episodio del roveto ardente:

Il Dio invisibile... e l'umana contemplazione della sua gloria

Jahvè “riempie il cielo e la terra” (Cfr Ger 23,24) vedendo “tutto ciò che è sotto la volta del cielo” (Gb 28,24) ed inoltre - ci dicono le pagine dell'Antico Testamento - Lui è anche un “Dio nascosto” (Is 45,15), che nessuno può vedere se non è Lui a volersi manifestare.
Come già abbiamo visto percorrendo la tappa dedicata alle “teofanie bibliche”... Jahvè si manifesta peraltro in un modo che rimane sempre velato, tale da preservare la purezza della sua trascendenza.
Lo stesso Mosè, che pure ha il privilegio di parlare “bocca a bocca” con Dio e di contemplare “l'immagine del Signore” (Nm 12,8)...  quando prega Jahvè dicendoGli “Mostrami la tua gloria!” (Es 33,18) , si sente rispondere: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20).

Il Nome divino... nel Tempio di Gerusalemme

L'umana aspirazione di vedere Dio è uno dei temi largamente diffusi nelle pagine della Bibbia ebraica e, come abbiamo visto nella precedente tappa, questo desiderio non trova risposta nella possibilità di vedere direttamente il "volto" di Jahvè... bensì nella possibilità di contemplare la sua Gloria, ovvero di fare esperienza delle manifestazioni "velate" della sua divina presenza e della sua potenza.
Una particolare manifestazione della gloria divina avviene nella “tenda del convegno” (il santuario mobile contenente l'Arca dell'alleanza) nella quale Jahvè manifesta la sua presenza durante l'esodo del popolo ebraico nel deserto.

Shëkhināh, la presenza di Dio

Percorrendo la tappa focalizzata sul “Nome divino nel tempio di Gerusalemme”, abbiamo ricordato come la voce dei profeti ebraici si sia ripetutamente levata, nel corso dei secoli, per denunciare un uso magico-ipocrita del tempio, praticato da quanti trascuravano un fondamentale principio della fede: nella sacralità del luogo di culto Jahvè manifesta la sua presenza al credente, ma a condizione che questi Gli sia stato fedele anche nella vita di tutti i giorni.

Il « Nuovo Tempio »... nel Corpo di Cristo

Tra gli episodi della vita pubblica di Gesù, uno dei più noti è quello della purificazione del Tempio di Gerusalemme che, seppur con sfumature diverse*, è raccontata da tutti e quattro gli evangelisti.
Nel racconto marciano Gesù denuncia la corruzione che fa diventare tale Tempio un “covo di ladri” (Mc 11,17) e, in questo modo, il Cristo fa riecheggiare un'espressione utilizzata da Geremia (Ger 7,11) in un discorso nel quale il profeta evidenzia come il comportamento infedele del popolo trasformi il tempio in una costruzione “svuotata” dalla presenza divina, di fatto “sostituita” dal silenzio di Dio.

Il Tempio di "pietre vive"... che accolgono "Cristo nell'uomo"

Il Simbolo "Cristo nell'uomo",
posto sopra l'ingresso del Tempio
di Anima Universale
nel monastero di Leini (TO)
Dal 70 d.C., anno in cui le armate romane guidate dal generale Tito distruggono il Tempio di Gerusalemme, scompare quello che era il luogo sacro per eccellenza della fede giudaica.
A seguito di questo evento drammatico, nel Giudaismo prende avvio una nuova fase nella quale la Shëkhināh, la presenza divina, viene riconosciuta essenzialmente nel dono della Tōrāh, la Sacra Scrittura il cui studio diventa prioritario anche rispetto alla preghiera.

La radice sanscrita « DRŚ »… ed il verbo ebraico « DRSh »

Dopo che nelle precedenti tappe abbiamo rivisitato la concezione ebraico-cristiana di Tempio, facciamo adesso una repentina “escursione” ad Oriente, immaginando di trovarci per qualche momento all'interno di un Tempio induista, designato dal termine sanscrito “Mandir” (che significa “casa”).
Intorno a noi ci sono alcuni fedeli raccolti in preghiera, che stanno facendo esperienza della presenza divina nel cosiddetto “Darshan”, un termine derivante dal sanscrito Darśana che, in quanto sostantivo, viene impiegato con il significato di “vista”, “visione”, "percezione"...  per designare l'incontro con il Divino, la cui presenza può essere per esempio rappresentata da una statua sacra, oppure da un Guru, cioè da un maestro spirituale indù (dal sanscrito guru, che significa “profondo”).

Dābār Jahvè

Nella tradizione biblica l'umano desiderio di sperimentare la divina presenza di Jahvè trova risposta, oltre che attraverso l'esperienza cultuale nel Tempio, anche nell'ascolto della sua Parola.
Dalla sua trascendenza, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe parla infatti agli esseri umani, rivolgendosi in particolare ai profeti affinché essi trasmettano la sua Parola (in ebraico “dābār”, in aramaico “memra”) al popolo.
Ben di più di ciò che il vocabolo “parola” significa nelle lingue moderne, la Parola di Dio (in ebr. "Dābār-Jahve") ha un valore semantico assai ricco e profondo.
La Dābār Jahvè è infatti una forza divina attiva e creativa... che al contempo rivela ed agisce... forgiando gli eventi della storia umana conformemente ai divini piani di salvezza.
Leggendo i libri della Tōrāh possiamo così osservare come, nel suo aspetto di rivelazione, la Parola divina si manifesta in quanto Legge e regola di vita, evidenziando i disegni, la presenza e l'azione di Dio, svelando il senso nascosto degli avvenimenti terreni e facendosi anche promessa ed annuncio del futuro.

La personificazione della Sapienza divina

Rivisitando alcuni “connotati” del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, così come sono descritti nella Bibbia ebraica, abbiamo tra l'altro osservato che Jahvè non resta lontanamente isolato nella sua trascendenza, ma comunica con l'essere umano manifestandogli la sua divina presenza e rivolgendogli la sua “Parola” (Vedi la tappa: “Dābār Jahvè).
Il Dio biblico parla dapprima ai patriarchi, e poi a Mosè e agli altri profeti della tradizione ebraica, attraverso i quali Lui guida il popolo facendogli anche riconoscere il suo divino disegno, nascosto tra le “pieghe” degli avvenimenti della storia.

Un concetto religioso “trasversale”: è la Parola divina che porta ogni cosa all'esistenza

Nella tappa precedente ci siamo intrattenuti con la Sapienza divina personificata che, come si può per esempio leggere nel grande prologo introduttivo al Libro dei Proverbi (Pr 8,22-30), è presente in Dio dall'Eternità, e nello stesso tempo opera insieme a Lui nella creazione.
Si tratta di un concetto teologico al quale l'evangelista Giovanni “fa eco” nel celebre Incipit del suo Vangelo, quando usa il termine Verbo (“Logos” nel testo greco originale) per scrivere: “In principio era il Verbo”, “Egli era, in principio, presso Dio”, “tutto è stato fatto per mezzo di lui” (Cfr. Gv 1,1-3).

Dal Suono... al Verbo divino

Nella precedente tappa abbiamo riscontrato come il concetto teologico della “Divina Parola” creatrice sia presente nella tradizione biblica e anche nella tradizione vedica, la quale si riflette poi nei Testi Sacri delle maggiori religioni orientali.
Soffermandoci ancora per qualche momento in Oriente, possiamo osservare come il concetto della Parola divina (Vāc) che porta l'universo all'esistenza, sia intrecciato con un'altra idea religiosa, ovvero quella del “suono primordiale” (nâda) che è all'origine del cosmo: « Tutto ciò che è percepito come suono dicono i testi, è shakti, cioè Potenza Divina. Ciò che non ha suono è il principio stesso » (J.Chevalier e A.Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli Milano, 1986, p.437).

Il divino Amen

Nella tappa precedente (Cfr. “Dal Suono... al Verbo divino”) abbiamo rivisitato il “ventaglio” di significati che la tradizione religiosa orientale attribuisce alla sillaba sacra per eccellenza... il suono “Om”... e abbiamo osservato alcune marcate corrispondenze con il concetto teologico del Logos-Cristo, che è posto a fondamento del Vangelo di Giovanni. 
Un'ulteriore analogia balza agli occhi se si osserva come, nella tradizione induista, il suono Om venga celebrato all'inizio e alla fine di una preghiera, di una meditazione, di un canto... come anche al termine della recitazione di un mantra, o dopo aver letto un brano di un testo sacro... assumendo il significato di “sì, così è”.
Questo è ciò che rileva, tra gli altri, anche il noto teologo cattolico R.Panikkar, che evoca pertanto l'affinità della sillaba sacra Om con il termine biblico Amen  (R.Panikkar, “I Veda” Vol.II, 2001 RCS Milano, p.1125).

Mente e Suono... che si fanno preghiera

Nella tappa precedente (Cfr. “Il divino Amen”) abbiamo toccato il concetto biblico del “Cristo - Amen” (Ap 3,14), osservandone in particolare alcuni aspetti che, come una sorta di “eco”, si riverberano anche nelle sillabe sacre per eccellenza della tradizione orientale, ovvero Om e Aum.
Come abbiamo visto, la fondamentale importanza religiosa attribuita a questi suoni sacri scaturisce da una concezione teologica presente, in modo "trasversale", nelle tradizioni che fanno riferimento alla Bibbia e ai Veda*:
Il suono della Parola divina (in ebraico Dābār, in sanscrito Vāc) è all’origine di tutto ciò che esiste in questo nostro mondo (Cfr.  “E' la Parola divina che porta ogni cosa all'esistenza”)... ed è anche il mezzo attraverso il quale il Dio trascendente continua incessantemente a manifestare la sua “essenza verbale” nella dimensione dell'immanenza (Cfr. “Dal Suono... al Verbo divino”).

La preghiera, nella tradizione biblica

In questo mio viaggio nel Soprannaturale, che ci ha appena visti giungere nei "terreni" teologici di cui vi ho parlato nella tappa “Mente e Suono... che si fanno preghiera”, apro oggi una parentesi incentrata proprio sull'azione di pregare... che in senso generale può essere intesa come l'atto con il quale un credente si rivolge a Dio mediante parole, pensieri, gesti... per chiederGli aiuto e protezione... o per lodarLo, adorarLo, ringraziarLo.
Mentre sul concetto di preghiera liturgica” - cioè sulla preghiera destinata al servizio cultuale di una comunità religiosa - avremo modo di tornare in altri momenti di questo nostro viaggio... ci addentriamo adesso nella dimensione prettamente personale della preghiera e, per farlo, entriamo da una “porta” costituita da queste parole di Swami Roberto: 
« Nella vita spirituale, non esiste “fenomeno” più grande e sorprendente che possa coinvolgerti in toto: ogni qualvolta che, con tutta la tua sincerità, ti raccogli in te stesso e parli con l’Altissimo… accade che l’Altissimo si inchina, si abbassa e ti avvolge, ti innalza e ti libera dallo sgomento.
In questa Terra, nulla è più potente della tua preghiera. 

Essa apre i cieli e fa entrare il Dio degli Universi nella tua vita, per restaurarla.»

Il modello di preghiera custodito nei Vangeli

Dopo aver rivisitato alcune delle fondamentali caratteristiche della “preghiera nella tradizione biblica”, possiamo adesso concentrare la nostra attenzione in particolare sui Vangeli, così da mettere in evidenza il modello in funzione del quale la tradizione cristiana ha poi elaborato una sua peculiare concezione di “preghiera personale”.
Infatti, pur se ovviamente la concezione ebraica e la concezione cristiana di preghiera hanno un fondamento comune che scaturisce dall'Antico Testamento... è anche vero che la prospettiva cristiana esprime una sua peculiarità che trae origine dalle specifiche indicazioni fornite dagli insegnamenti di Gesù, oltre che dal suo esempio di vita.

« Perché tutti siano uno »

Tra gli innumerevoli mantra che fanno parte delle varie tradizione religiose orientali, ce ne sono alcuni che hanno raggiunto una particolare importanza... com'è il caso dei "mahāvākya", ovvero alcune grandi massime tratte dalle Upanisad*.
Una di queste è l'affermazione “Tat tvam asi” (“Tu Quello sei”, “Questo sei tu”), un mantra sanscrito che viene celebrato dai credenti con l'aspirazione di unirsi al Brahman*, cioè al Dio assoluto, eterno ed immutabile... e, come scrive per esempio il teologo K.Friedrichs, « il discepolo, che si riconosce come ātman in questo “tu”, otterrà spontaneamente la liberazione, perché l'ātman è identico al Brahman »  (Cfr. K.Friedrichs, Dizionario della saggezza orientale, Mondadori, Milano 2007, p.422).

Questo tipo di interpretazione si inserisce nella prospettiva teologica che fa riferimento ad una delle figure di spicco della tradizione religiosa indiana, ovvero Śańkara (ca. 788-820), il quale elaborò la concezione secondo cui il Brahman (l'Assoluto di Dio) e l'Ātman (l'Io individuale del credente) non sono considerate “due realtà distinte o destinate a rimanerlo” (M.Delahoutre, Grande Dizionario delle religioni, Cittadella Editrice, Assisi 1990, p.17).

La preghiera contemplativa

Nelle ultime tappe abbiamo dapprima gettato uno sguardo, da Occidente ad Oriente, su alcune antiche forme di orazione giunte sino al nostro presente... e poi abbiamo preso in esame la specifica concezione di preghiera sorta in seno alla tradizione biblica… da cui scaturisce anche la particolare dimensione della “preghiera contemplativa” sulla quale ci soffermiamo oggi.
Il termine “contemplare”... che in origine designava l’attenta osservazione del cielo volta a trarne dei segni augurali... nel corso dei secoli ha invece acquisito il significato di concentrazione dell’intelletto su una determinata verità fatta oggetto di riflessione razionale… nel senso reso anche dal termine greco “theoría” (conoscenza intellettuale) che, con la nascita del pensiero filosofico, identificava l’attività più nobile alla quale l'essere umano doveva aspirare, elevandosi al di sopra del piano della mera “práxis” (azione).

Focalizzando l’attenzione sul piano prettamente religioso, l'antenato biblico del termine “contemplazione” va individuato nella radice verbale ebraica (nbt) che designa lo sguardo intellettivo mediante il quale l’essere umano riesce a “scavare” perforando la superficie materiale della realtà fino a coglierne l’essenza… giungendo così a guardare ogni cosa con una consapevolezza capace di riconoscerne l’intima essenza, proveniente da Dio.

Rivelazione... ed interpretazione

Un'idea teologica presente trasversalmente nelle differenti religioni, è definita dalla parola rivelazione, un termine che generalmente può essere inteso come la manifestazione che Dio fa di Sé stesso rivelando la propria esistenza, natura, volontà e potere... oppure anche come la sua manifestazione di alcune verità alle quali la mente umana non potrebbe autonomamente accedere.
Com'è noto, tra le più comuni forme di Rivelazione vi sono i differenti Libri che le varie tradizioni religiose considerano "Sacri" proprio in quanto ritenuti i "contenitori" di questa Comunicazione divina all'umanità.

L'incarnazione del Logos, che rivela il Padre

Nella tappa precedente (Cf. “Rivelazione… e interpretazione”) abbiamo rivisitato alcuni fondamentali aspetti del concetto di Rivelazione divina che è riscontrabile nelle pagine dell’Antico Testamento... mentre adesso passiamo ad osservare come nel Nuovo Testamento tale idea di Rivelazione divina trovi il suo culmine nella concezione fondamentale della cristologia giovannea:
Il Verbo (In greco "Logos", cioè “Parola”) che sin dal principio era “presso Dio”, ed “era Dio” (Gv 1,1-3), ad un certo punto della storia umana “si fece carne” (Gv 1,14) nel corpo di Gesù Cristo.
Riferendosi a questo fondamentale evento salvifico, il quarto evangelista osserva che “Dio nessuno l'ha mai visto; proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18)

Nella teologia del Lógos, Dio si rivela anche ai “pagani” mediante i “semi” del Verbo

Dopo che nella tappa precedente siamo entrati nel concetto cristiano di “Rivelazione divina” custodito nel quarto Vangelo, adesso possiamo metterne in risalto un particolare aspetto relativo al Verbo, che sin dal principio “era presso Dio” (Cfr. Gv 1,2), e si è manifestato in quanto Vita e Luce (Cfr. Gv 1,4) anche prima della sua incarnazione in Gesù di Nazaret.

Legge naturale... e Rivelazione naturale

Nella tappa precedente abbiamo visto come i teologi cristiani dei primi secoli abbiano stabilito dei “ponti di comunicazione” con il mondo filosofico greco poggiandosi sulla cristologia giovannea del Logos, in virtù del fatto che "logos" era un termine presente nello stoicismo, dove veniva inteso come una realtà divina, una forza, un'energia, un “soffio vitale” che animava il mondo... alla quale si riteneva partecipasse anche il logos dell'essere umano.
Nella mentalità filosofica greca, la conseguenza etica di tale concezione implicava che il “saggio” stoico diventasse consapevole di questa razionale legge divina presente anche in lui, conformandosi ad essa.
Per definire questo modo di “vivere secondo natura”, volto ad assecondare l'ordine divino del mondo, nello stoicismo venne coniata l’espressione “legge naturale”… e questa concezione, anticamente assai diffusa, venne poi riletta anche in ambito cristiano… dove la legge di natura fu intesa come una “norma” originariamente inscritta da Dio nel cuore di ogni essere umano, al fine di inclinarlo al bene.

« Lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità » (Gv 16,13)

Nella prospettiva cristiana, la Rivelazione divina è da considerare chiusa, oppure aperta?
Lo Spirito Santo ha già detto tutto quello che aveva da dire, o sta ancora parlando?
Nel corso dei secoli, a queste basilari domande sono state date risposte “confessionali” diverse, alcune delle quali non tengono peraltro conto di una realtà che appare evidente nel momento in cui si osserva come... successivamente all'esistenza terrena di Gesù... sia nelle comunità paoline che in quelle giovannee la Rivelazione divina continuava ad esprimersi attraverso nuovi profeti, ai quali veniva riconosciuta un'importanza che era seconda soltanto a quella attribuita agli apostoli.

Ascoltare

Pensando al concetto di Rivelazione biblica che, in estrema sintesi, può essere definita come “la Parola che Dio rivolge all’umanità”... si può comprendere per quale motivo l’ascolto, da parte del credente, di tale Parola rivelatrice… sia uno dei fondamentali temi sviluppati nelle pagine delle Sacre Scritture.
Nelle due principali lingue bibliche, il verbo “ascoltare” (in ebraico shama', ed in greco akoúein) contiene in sé l'esortazione rivolta al credente affinché si coinvolga in una volontaria obbedienza alla Parola divina.
Per conseguenza, il fedele che effettivamente ascolta non si limita ad udire con le orecchie o a comprendere con l’intelletto ma, ben di più, si impegna ad aderire con tutto il suo essere alla Parola ascoltata, in modo da venirne trasformato interiormente nonché guidato nella propria condotta di vita.